La fanfaluca della “grid parity“
Premesso che trovo sempre umiliante giustificare l’impegno contro l’eolico industriale, che appare destinato a coprire di aerogeneratori alti (per il momento) 150 metri tutti i crinali appenninici, con argomenti “quantitativi” anzichè “qualitativi”, proverò a fare due conti per valutare l’ordine di grandezza dei costi di questa tecnologia in Italia. Non c’è bisogno di essere precisissimi per confutare tante asserzioni inverosimili di “grid parity“.
D’altronde mi rendo sempre più spesso conto della necessità di dovermi esprimere in ogni àmbito in termini di costi, rendimenti, efficienza ed opportunità in un’Italia dove la “qualità” di qualsiasi cosa, al di là delle sue conseguenze utilitaristiche immediate, viene sempre più spesso trascurata se non apertamente dileggiata (tranne nel caso della difesa delle rendite garantite dalla politica, si intende, per le quali vengono sempre invocati i Nobili Valori). Con tutti i bei risultati che si vedono ma che, a quanto pare, non si comprendono.
Ma ormai, nel nostro Paese, c’è poco da fare, se non impegnarsi con le giovani generazioni per cambiare questa triste realtà: come diceva quel tale, la cultura (e la sensibilità e la morale e il senso estetico eccetera eccetera) chi non ce l’ha, non se la può dare. A meno di non considerare “cultura” qualche tecnicalità, ancorchè specialistica.
Partiamo da una grossolana, ma necessaria, semplificazione: fissiamo, in base all’esperienza di questi anni, i costi aziendali (sottolineo: i soli costi aziendali) di un MegaWatt di potenza eolica installato in una zona montuosa o collinare italiana (dove si può meglio intercettare quel poco vento utile che c’è) in un milione e mezzo di euro (grosso modo un milione per l’aerogeneratore e 500 mila per le altre spese). Anche il decreto governativo per i nuovi incentivi feed-in fissa, ai fini della determinazione delle garanzie patrimoniali per partecipare alle aste, come standard per le sole spese di impianto per l’eolico on shore (pur sottostimandole) la cifra di 1.225.000 euro al MW.
Partendo dall’ipotesi di un milione e mezzo, si ricava facilmente che un MW eolico posto in un sito per il quale si ipotizza una produttività di 2.000 ore annue (siti rari ma non impossibili da trovare in Italia, sebbene ormai già ampiamente sfruttati, anche dove non si sarebbero potuto costruire simili impianti) e nell’ipotesi di una vita utile dell’aerogeneratore di 25 anni, come propagandato da molti costruttori, produrrebbe, in teoria, per 50.000 ore (2.000 X 25) un’energia pari, di conseguenza, a 50.000 MWh e quindi al costo di 30 euro al MWh (1.500.000 euro diviso 50.000 MWh) o, se si preferisce, a 3 cent il kWh: sarebbe bellissimo…
Passiamo ora ad una ipotesi più realistica, mantenendo l’ipotesi di un sito da 2.000 ore, ottimo per l’Italia ma in via di rapido esaurimento, ma considerando un ciclo di vita, più verosimile, di 15 anni, prima di essere costretti a sostituire parti importanti dell’hardware per usura o incidenti: e dunque, rifacendo i calcoli come prima, 30 mila ore di produzione totale, cioè 30 GWh, per 50 euro di costi a MWh. Ancora discreto, almeno per il mercato italiano dell’energia elettrica, che è uno dei più cari al mondo.
Successiva approssimazione: consideriamo la produttività media reale dei siti eolici italiani, che ormai si conferma abbastanza costante, se non addirittura in leggera decrescita, attorno alle 1.500 ore di produttività annue. Mantenendo costante la vita utile in 15 anni, si ottiene il risultato di 22.500 ore di produzione complessiva, quindi 22,5 GWh al costo di 66 euro al MWh.
E qui già siamo con costi sopra al prezzo di mercato dell’energia elettrica dell’inizio di gennaio (65 euro al MWh). I prezzi elettrici correnti sono in ulteriore discesa ed è ragionevole attendersi, per febbraio, un prezzo medio sotto i 60 euro. All’inizio del mese, per un paio di giorni, il prezzo medio è addirittura sceso sotto i 40. La legge della domanda e dell’offerta è dunque in azione: la sovracapacità produttiva da un lato (ormai in Italia è installato il triplo del potenziale elettrico necessario rispetto al picco storico richiesto di 56.000 MW) e la riduzione della domanda, indotta dallo spropositato aumento degli oneri da incentivazione in bolletta e dalla crisi economica, operano entrambe nel senso di ulteriori riduzioni del prezzo dell’elettricità (attenzione: qui stiamo parlando di prezzi del mercato elettrico, non di costi e neppure di bollette). I costi di produzione, alla lunga, dovranno essere sensibilmente inferiori ai prezzi della Borsa elettrica e questo obbligherà ad una maggiore efficienza, pena l’uscita di moltissimi produttori dal mercato. Oppure, per sostenere la domanda, sarà necessario (anche se, in verità, logica avrebbe voluto che questo fosse già successo da tempo) il drastico taglio degli incentivi (quelli già in essere) alle rinnovabili elettriche.
Ma, per quello che riguarda i costi dell’eolico, non è finita, anzi…
La realtà, purtroppo, prevale sulla fantasia. Il più completo studio a posteriori finora dedicato all’argomento della produttività degli impianti eolici (si veda il seguente articolo del Telegraph) ci dice che non solo la durata di 15 anni è un’ipotesi molto ottimistica, ma, quel che è peggio, la curva discendente della produttività dei singoli aerogeneratori è molto più accentuata e rapida del previsto, a maggior ragione per le macchine più grandi (e per gli impianti in mare), per cui quei 66 euro di costo valgono solo per una ipotesi di scuola (la produttività iniziale costante per 15 anni), inapplicabile alla realtà.
In base a queste considerazioni, possiamo supporre che un medio sito italiano generi costi aziendali al MWh prodotto comunque superiori ai 100 euro (10 cent al kWh). Questa è al momento solo una deduzione, anche se verosimile. Per avere questa certezza dovremo aspettare ancora qualche anno per disporre, come in Gran Bretagna e Danimarca, di quindici anni di dati reali sulla vita utile e la produttività decrescente di migliaia di aerogeneratori giganti installati in Italia (dove le pale hanno cominciato a girare mosse dagli incentivi e non dal vento che non c’era e continua a non esserci, nonostante tutti i soldi spesi) più recentemente che in nord Europa.
E adesso passiamo ai costi (ingegneristici) non aziendali, ma che ricadono comunque sulla collettività e che devono essere considerati in un’analisi, per quanto grossolana, dei costi dell’energia eolica in Italia.
Ripeto: i soli costi ingegneristici collettivi. Non voglio parlare in questa sede, per evitare di maramaldeggiare, degli incentivi (indicati nelle bollette come “oneri di sistema”): i soli incentivi (diretti) alle FER elettriche recentemente installate (che valgono pochi punti percentuali della produzione nazionale) hanno rappresentato un “onere di sistema” prossimo, nel 2012, agli 11 miliardi di euro (previsto dai documenti ministeriali in rapida crescita fino a 12,5 miliardi), cioè un ordine di grandezza equivalente al prezzo di mercato di tutta ( ! ) l’energia elettrica prodotta in Italia (compresa quella da FER incentivate) lo scorso anno (284 TWh), qualora il prezzo di Borsa tendesse a stabilizzarsi attorno ai 40 euro al MWh.
E tanto meno voglio occuparmi dei costi (Dio mi perdoni) “qualitativi”.
Inoltre, intendo accennare solo alle voci principali: innanzi tutto i costi per rinnovare le reti (l’ordine di grandezza è di 800 milioni all’anno per i prossimi anni che però salirebbero inevitabilmente ad un multiplo di tale cifra nella malaugurata ipotesi che venissero confermati dal prossimo Governo i valori obiettivo al 2020 di produzione da FER elettriche contenuti nella bozza della SEN)
Infatti le reti, così come sono, non sono adatte a supportare oltre un certo limite dell’energia non programmabile e devono perciò essere sostituite.
Poi ci sono da considerare i “costi di dispacciamento” (che non si limitano al solo “corrispettivo a copertura dei costi della modulazione della produzione eolica art. 44/bis del 111/06”), difficili, sebbene non impossibili, da quantificare, ma in deciso aumento nelle bollette di famiglie ed imprese da quando si è impennata la produzione da fonti intermittenti.
(Perché la luce costa sempre di più? Una risposta più corretta alla domanda di Legambiente)
Proprio in merito al servizio di dispacciamento l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas (AEEG) ha recentemente pubblicato una deliberazione (281/2012) riguardante le FER elettriche non programmabili in cui, con toni preoccupatissimi, si impone di provvedere non solo per una riduzione di tali costi (da porre, per quanto possibile, a carico dei produttori), ma soprattutto dei rischi gravissimi di black-out (pag. 3: “mitigare il rischio di disconnessione a catena degli impianti in caso di grave incidente di rete”) che la presenza massiccia di FER non programmabili comporta per la rete elettrica.
Tale delibera ha suscitato la reazione dell’Anev (la Confindustria degli eolici) che parla di “spada di Damocle” “che pretende di imporre ai produttori eolici l’obbligo di fornire la previsione di produzione per gli impianti alimentati da una fonte, il vento, per definizione non programmabile.” In questo l’Anev ha perfettamente ragione: si tratta di una pretesa irragionevole. Naturalmente il problema è irrisolvibile dal punto di vista tecnico: la sola soluzione logica, per evitare i disastri che ci attendono ineluttabilmente in un futuro molto prossimo, sarebbe separare la rete elettrica nazionale da questi impianti non programmabili, il cui ruolo avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, solo quello (ausiliario) di garantire la produzione di energia in loco per l’autoconsumo.
Ma proprio parlando di dispacciamento, casca definitivamente l’asino per quello che riguarda la “grid parity“. Già avevamo raggiunto livelli di costo completamente fuori mercato, in assenza di incentivi, per un sito medio italiano pur senza considerare le ingentissime spese per la rete, ma incontriamo ora un ostacolo molto più dirimente che i costi. Qui purtroppo sono costretto a parlare brevemente, e me ne scuso, di “qualità”, che è comunque un elemento essenziale, e non una trascurabile contingenza, di tutte le cose e che, prima o poi, salta fuori anche in ingegneria ed in economia. La qualità dell’energia elettrica prodotta dalle fonti intermittenti (eolico e fotovoltaico) non è la stessa di quella prodotta dalle fonti tradizionali (termoelettrico, nucleare e grande idroelettrico). Per questo è improprio fare paragoni (già sconfortanti in Italia) sui costi tra due cose affatto diverse. Per questo, soprattutto, l’energia eolica e fotovoltaica non si può dire “alternativa”. Oltre a causare instabilità alle reti e maggiori costi, non si è in grado di garantire ai consumatori, ed in particolare all’industria, la stabilità dei parametri elettrici. Più si aumenta la percentuale di fonti intermittenti più la situazione si aggroviglia senza soluzione. Questo non vale certo solo per l’Italia: “Il colossale pasticcio delle rinnovabili elettriche in Germania secondo Der Spiegel”
Proprio in questi giorni persino nella inflessibile Germania merkeliana si parla di tagliare gli incentivi che hanno permesso questi disastri.
Purtroppo l’energia elettrica, per essere usata quando ce n’è necessità, si può spostare solo nello spazio (pur con severi limiti) ma non nel tempo.
Niente da fare: si potrebbe coprire l’Italia di pale eoliche e quindi ottenere facilmente (prescindendo dai costi, ovviamente) l’energia equivalente ai consumi nazionali di 320 TWh e persino oltre (dovrebbero bastare appena 300.000 pale da un MW, alte perciò non più di cento metri l’una, e che potrebbero essere comodamente distribuite una su ciascun chilometro quadrato del territorio nazionale), ma ciononostante sarebbe comunque necessario mantenere in funzione tutte le centrali a combustibili fossili esistenti in Italia in funzione di back up quando il vento non soffia, con i relativi sussidi (il capacity payment. A proposito: a quanto ammontano all’anno? A rigor di logica questo è un altro costo, sebbene indiretto, che dovremmo aggiungere ai nostri calcoli…) da pagare anche a loro, per farle sopravvivere senza produrre quando c’è il vento utile. Sarebbe davvero un bel risultato!
In Italia c’era bisogno di tutto tranne che di una pletora di generatori di elettricità non programmabile e quindi non affidabile.
Per questo il Professor Mario Silvestri, durante il dibattito culturale, e parlamentare, per determinare come sostituire le centrali atomiche italiane dopo Chernobyl ed il successivo referendum anti-nucleare (sebbene allora i Sommi Sacerdoti dell’eolico ipotizzassero, in teoria, in assenza degli attuali aerogeneratori giganti in opera solo da una dozzina di anni in Italia, che la produttività annua dell’eolico italiano sarebbe stata di 3.000 ore, cioè giusto il doppio di quella poi rivelatasi reale), affermava esplicitamente che era “penoso” anche solo parlare di eolico per garantire una fonte complementare di energia elettrica sicura per le esigenze del Paese.
Naturalmente tutte queste obiezioni si attagliano, a maggior ragione, anche al fotovoltaico. E’ difficile però spiegare in termini di costi perchè il fotovoltaico sui tetti degli edifici moderni e nelle aree industriali potrebbe andar bene e quello a terra nelle aree agricole no. Il fotovoltaico al posto dei vigneti e di altre culture va male (e l’eolico industriale in cima alle montagne perfino peggio) ANCHE per i costi, ma soprattutto per i soliti motivi “qualitativi” che pare non piacciano, per ipotesi, a troppi decisori italiani.
Trascuro, per l’eolico industriale, (anche perchè tanto ormai di fattori negativi di costo ne ho indicati già in abbondanza ed in attesa che qualcuno quantifichi il danno collettivo con gli strumenti dell’analisi costi-benefici ambientali) i costi determinati dai mancati ricavi di tutte le attività economiche compromesse dalla presenza degli immani aerogeneratori e soprattutto la perdita del valore delle proprietà che vedono trasformarsi zone turistiche e silvo-agro-pastorali in terrificanti aree industriali deserte di operai. Evito altresì, lo ripeto, di parlare delle considerazioni ostative veramente importanti, perchè “qualitative”. Ma proprio per queste considerazioni in Scozia, ad esempio, si mette in dubbio l’opportunità di costruire impianti che potrebbero produrre per oltre 3.000 ore l’anno. Pensate: quei disgraziati scozzesi, di fronte alla salvezza del pianeta Terra che le loro pale certamente garantirebbero, si preoccupano per degli incomprensibili “valori identitari”! Miserabili egoisti!
Per concludere, se tutto questo non bastasse, mi preme un’obiezione “quantitativa” all’eolico ed alle altre rinnovabili, di valenza ben più ampia.
Il protocollo di Kyoto è stato sottoscritto nel 1997 per evitare che continuasse un’emissione mondiale di gas clima alteranti allora giudicata ormai insostenibile.
Dopo quindici anni di costosissimi sforzi, risulta che, da allora, tali emissioni, a livello globale, sono cresciute del 50% !
Se queste fossero rimaste invariate, dopo 15 anni si sarebbe dovuto parlare di “fallimento” delle azioni ispirate da tale protocollo. Stante un simile aumento, invece, per definirne in sintesi gli esiti si può invece ricorrere, senza iperbole alcuna, al termine “catastrofe”.
Ormai a credere alla efficacia delle politiche conseguenti a quel protocollo sono rimasti solo gli europei. E gli australiani… Gli altri, visti i risultati, e ammesso che ci fossero saliti, hanno abbandonato la barca.
Dobbiamo aspettare altri 15 anni ed un aumento delle emissioni rispetto alle attuali di un ulteriore 50% per modificare le politiche europee ed adottare provvedimenti meno buonisti ma più efficaci per limitare questo fenomeno, smettendo di parlare continuamente di “asticelle da alzare” e di altri slogan puerili?
E’ ridicolo fare i primi della classe, menando vanto del raggiungimento dei propri obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni inquinanti (dovute soprattutto alla deindustrializzazione ed alla crisi economica) attraverso politiche autolesionistiche che producono il solo risultato di spostare le produzioni industriali, e la conseguente ricchezza, là dove sistemi economici sempre più competitivi ed insensibili ai problemi ecologici NON vengono supportati dall’elettricità prodotta dai … mulini a vento (!).
La cosa ormai non è più neppure seria, ma appare solo come l’ultimo atto di un tentativo europeo, iniziato esattamente un secolo fa e frutto di una evidente patologia dello spirito, di suicidarsi con ogni mezzo. Cento anni fa l’Europa era la padrona del mondo. Molto presto, se la tendenza al declino in atto non verrà rovesciata rapidissimamente, non sarà neppure più necessario, almeno in Italia, preoccuparsi di emissioni clima alteranti. Non potendoci più permettere il lusso di acquistare combustibili fossili, si ritornerà, per produrre energia, ai mulini a vento (quelli veri) ed a quelli ad acqua, come si era fatto per secoli. Ed all’uso degli animali per spostarsi e per produrre lavoro. E così per girare le macine si ricorrerà di nuovo agli asini. Di essi c’è grande abbondanza nel Bel Paese (presto ex Bel Paese), specie dietro alle cattedre universitarie, tra chi non si è opposto, avendone le competenze e i titoli, a questa baggianata dell’eolico salvifico. Ma i titoli accademici non danno, evidentemente, il coraggio di sfidare i tabù del politicamente corretto, che oggidì garantisce fama, carriera, prebende varie e persino premi Nobel. E neppure, più semplicemente, di opporsi agli appetiti inconfessabili dei politici e delle loro (molte) clientele in questo settore. O forse si tratta solo di banale conformismo: parliamo comunque di ben altre tempre rispetto a quella del compianto Professor Silvestri e di altri della sua generazione…
Alberto Cuppini
io sono un semi analfabeta, in suo confronto, ma sapesse quante volte ho sostenuto le sue stesse opinioni, purtroppo con persone incolte emenefreghiste, oppure interessate solo al denaro, tanti maledetti e subito,ci stiamo avviando alla catastrofe spero che qualcuno si svegli per tempo. perchè la verità rimane occulta e la demagogia e la retorica becera ( grillo) impazza? propaganda folla e potere don quijote de la mancha adelante y con juicio sancho
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