Problemi connessi con l’eolico sull’Appennino Tosco emiliano-romagnolo.
Relazione presentata dal portavoce per l’Emilia-Romagna della Rete della Resistenza sui Crinali in occasione del convegno “Fonti energetiche: scelta complessa.” del 13 e 14 maggio 2011 organizzato dalla Unione Bolognese Naturalisti.
La Rete della Resistenza sui Crinali (RRC) è il coordinamento dei comitati (attualmente 12) che si oppongono alla costruzione di impianti eolico-industriali selvaggi sulle montagne dell’alto Appennino.Tale coordinamento, costituito appena sei mesi fa, conta ormai su alcune migliaia di persone, tra aderenti ai singoli comitati e simpatizzanti, nella sola Emilia-Romagna ma che aumentano ad un ordine di grandezza superiore se si considerano le aree delle regioni limitrofe che insistono sulla dorsale appenninica della nostra regione.
Mentre è intuibile che cosa intendiamo per impianto eolico “industriale”, chiarisco l’accezione dell’attributo “selvaggio”.
L’improvvisa apparizione di impianti di questo tipo sui nostri crinali è il frutto di una improvvisa deregulation, innescata circa un decennio fa da un decreto per la liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e dalla adozione del sistema incentivante dei certificati verdi.
Stiamo perciò resistendo per evitare che vengano commessi scempi ambientali approfittando della mancanza
- delle linee guida regionali sugli impianti a fonti di energia rinnovabile (da questo momento FER) rese obbligatorie dalla delega contenuta nelle linee guida nazionali pubblicate dopo anni di attesa nello scorso settembre.
- della definizione delle quote di burden sharing regionali, anch’esse obbligatorie per legge e di competenza del Governo nazionale.
- dei decreti esecutivi (attesi per il prossimo mese di giugno) per la redifinizione degli incentivi agli impianti eolici di potenza superiore ai 5 MW (quella che può essere considerata, grosso modo, la soglia minima per definire un impianto “industriale”) e per altre limitazioni agli impianti eolici che, purtroppo, le linee guida nazionali hanno tralasciato.
La decisione di creare un coordinamento tra i comitati, peraltro già esistente nei fatti, è stata determinata (oltre che da una comprensibile necessità di acquisire una maggiore visibilità e potere contrattuale nei confronti degli amministratori della cosa pubblica, della stampa e delle associazioni che dovrebbero svolgere il compito di tutela ambientale e paesaggistica) dalla volontà di contrastare la solita, e ormai trita, accusa di “sindrome NIMBY” che viene rivolta ai singoli comitati. La pervasività dei progetti di impianti eolico-industriali è ormai tale per cui la preoccupazione non è più solo per una singola localizzazione, ma riguarda, o rischia di riguardare in breve, tutte le zone di crinale della regione (tutte aree, non a caso, di particolare pregio e bellezza).
Allego la relazione, aggiornata ad oggi, della situazione degli impianti eolici in Emilia Romagna, presentata in occasione della conferenza stampa del 24 gennaio scorso presso la sede romana di Italia Nostra. In quell’occasione è stata richiesta dalle molte associazioni aderenti all’iniziativa una moratoria nazionale di tali impianti per motivi analoghi a quelli sopra indicati e nella consapevolezza che i ritmi di incremento realizzati in Italia nel 2009 (+ 38%) avrebbe permesso di raggiungere la quota stimata dal PAN (di cui tratterò in seguito) già all’inizio del 2013. Una breve pausa di riflessione, perciò, non è solo auspicabile, ma anche attuabile senza compromissioni di nessun tipo. Tranne che per le rendite parassitarie pretese dagli speculatori.
Faccio una doverosa premessa: non riteniamo che sia compito della nostra Rete fornire suggerimenti circa le soluzioni energetiche alternative da adottare. Nei comitati della RRC sono presenti, agli estremi opposti, persone che hanno fatto volontariamente scelte di vita all’insegna della rinuncia ai combustibili fossili ed altri favorevoli al ritorno al nucleare. Non siamo una associazione ambientalista, ma piuttosto una sorta di task force, destinata a sparire una volta esaurito il nostro compito: è nostra intenzione opporci ai comportamenti predatori che, confidiamo, verranno rapidamente meno nel nostro territorio grazie alla nuova normativa regionale e statale. Se posso fare una generalizzazione, questa riguarda il convincimento condiviso da tutti noi che l’enorme quantità di denaro pubblico dissipata a favore di pochi speculatori dell’eolico potrebbe essere più razionalmente utilizzata nella ricerca e nello sviluppo di fonti energetiche veramente alternative agli idrocarburi fossili: uno dei frutti avvelenati degli eccessivi sussidi a vantaggio di tecnologie superate, dannose, inefficienti ed inefficaci è che si uccidono sul nascere proprio ricerca e innovazione.
I problemi connessi all’eolico sul nostro Appennino sono del tutto analoghi, ma in proporzione ancora maggiori, a quelli che rendono sconsigliabile l’adozione di tale tecnologia in Italia, rispetto ad altre zone d’Europa: un problema quantitativo (la ancora più accentuata mancanza di vento utile) ed uno qualitativo (la particolare pregevolezza delle località interessate, che sono il vestibolo ad aree in gran parte intatte del nostro Paese, invidiateci da secoli dai viaggiatori stranieri, e curate da decine di generazioni di italiani con lo stesso senso estetico ed il piacere delle cose ben fatte con i quali i loro contemporanei costruivano le città “d’arte”).
Un altro motivo di particolare gravità è l’accentuazione della tendenza all’abbandono delle aree montane della regione da parte dei residenti, dove, al contrario, sarebbe necessaria una decisa politica di ripopolamento. Quei pochi che attuano coraggiose scelte di vita, abbandonando le città sovrappopolate per trasferirsi a vivere in montagna, andrebbero tutelati e non penalizzati con la trasformazione perfino di questi luoghi più estremi in colossali aree industriali. La montagna appenninica, attraverso l’implementazione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, può diventare una enorme risorsa per la collettività, e non una riserva di rendite per i land bankers.
Il dibattito sull’eolico in Italia langue.
All’estero, dove hanno molto meno da perdere in termini di varietà ambientali e bellezze paesaggistiche, si dedica molta più attenzione al problema. Si percepisce un elevatissimo (e inquietante) indice di correlazione tra gli incentivi più alti d’Europa e la massima disinformazione verso la cittadinanza da parte degli amministratori pubblici preposti e dei media.
Il Piano d’azione nazionale.
Nel quadro del progetto europeo del 20-20-20 per il 2020 obbligatorio per tutti i paesi membri dell’Unione, (cioè, rispettivamente, riduzione del 20% delle emissioni di gas clima-alteranti, 20% di produzione di energia da fonti rinnovabili, rinegoziata dal Governo italiano al 17%, sui consumi complessivi ed aumento dell’efficienza energetica del 20%) è stato presentato il settembre scorso a Bruxelles dal Governo italiano il Piano d’Azione Nazionale (PAN).
Importante notare che, mentre le emissioni di CO2 in eccesso possono essere compensate dall’acquisto di certificati di emissione (cioè è prevista una multa per inadempienza), non sono previste sanzioni pecuniarie per il mancato rispetto degli altri obiettivi. Interessante altresì notare che, non essendo in ballo incentivi ma addirittura una riduzione dei costi collettivi, nessuno dei novelli ecologisti si preoccupa del terzo “20” del progetto europeo, cioè dell’aumento dell’efficienza energetica, principio cardine ed irrinunciabile del protocollo di Kyoto, invocato dai suddetti come testo messianico. Ma solo quando conviene.
Ecco di seguito gli obiettivi proposti che ci interessano. Ma prima di passare ad un brutale elenco di numeri, sottolineo che gli obiettivi per classi di produzione energetica sono appunto “proposti”. Non sono e neppure saranno incisi sulla pietra delle Tavole della Legge.
Dal PAN viene confermata la quota del 17% da fonti rinnovabili al 2020 sull’energia complessiva consumata nel paese.
Nel settore elettricità (che è il solo che ci interessa per l’eolico) il valore obiettivo delle rinnovabili al 2020 sale dal 25% precedente al 26,39% dei consumi totali. Nel 2005 tale valore era il 16,29% e nel 2010 era previsto al 18,71%.
Nell’ultima parte del documento (5. Valutazioni – pag. 154), dove si tratta del contributo totale di ogni tecnologia, si ricava che gli obiettivi sono “stimati” ma non “fissati”.
Questo significa che gli obiettivi per l’eolico non hanno carattere di cogenza ma sono solo suggerimenti per una linea di condotta nazionale.
E’ quindi falso affermare che si devono installare un certo numero di impianti eolici, per raggiungere una determinata produzione, perchè ce lo ordina l’Unione Europea. Si tratta di una scelta (a nostro avviso sbagliata) del Governo italiano che non tiene conto delle specificità nazionali. E’ significativo che gli obiettivi fissati per il fotovoltaico (8.000 MW al 2020) siano già stati raggiunti. E’ nostro auspicio che la produzione in eccesso da FV (che appare perfettamente alternativo all’eolico industriale ma con un impatto ambientale e paesaggistico molto minore, specie se i pannelli non fossero collocati su suolo agricolo) possa essere portata a detrazione dal valore obiettivo fissato per l’eolico.
Le stime per l’eolico sono, al 2020, di 12.680 MW. Di cui 12.000 MW di installato onshore e 680 offshore. Ricordo che l’ultimo dato precedente indicato dal Governo Prodi come valore obiettivo nella position paper del 2007 era 10.000 MW di installato a terra e 2.000 in mare. Un peggioramento complessivo lieve, per così dire, ma, chissà perchè, si tende ora a privilegiare, in controtendenza rispetto agli altri paesi, di più l’on shore, con più consistenti danni ambientali. La produzione di elettricità prevista è di 20.000 GWh totali, di cui 18.000 a terra e 2.000 in mare, circa il 6% dei consumi elettrici attuali e il 2% dei consumi energetici complessivi. Tralascio le considerazioni circa la natura incostante dell’energia eolica, che ne diminuisce la fruibilità e rende nei fatti questi valori percentuali sul totale (cioè la sua efficacia in senso ingegneristico) ancora più irrilevanti ed il confronto stesso con l’energia elettrica prodotta da fonti programmabili asslutamente improprio. La media stimata di 1.500 ore equivalenti per l’on shore corrisponde alla produttività degli impianti a regime realizzata lo scorso anno, ma questo dato è in costante diminuzione per il venire meno dei siti più produttivi ormai già sfruttati. Per questo, il raggiungimento del traguardo di produttività previsto al 2020 in questi termini è poco probabile. Del tutto irrealistica è invece la produttività dell’off shore a 2.941 ore equivalenti annue. Inoltre, se così fosse e stante una produttività doppia stimata per l’eolico in mare, non si capirebbe, a maggior ragione se si considerano i danni ambientali, perchè privilegiare i siti terrestri, meno produttivi. Si dirà: costi molto maggiori in mare. Ma gli incentivi esistono proprio per questo, non per arricchire i furbi.
Anche da questo documento programmatico (reso obbligatorio dall’UE) si percepisce nettamente il disinteresse, ormai storico, della nostra classe politica nei riguardi di alcuni problemi fondamentali, inevitabilmente connessi a questo piano, la cui mancata soluzione rende il PAN sulle rinnovabili una casa senza fondamenta:
- Mancanza di un piano energetico nazionale complessivo.
- Mancanza totale di analisi costi-benefici, analisi irrinunciabili comunque, a prescindere dal desiderio di compiacere ai diktat dell’Unione Europea. Ma, nel caso degli impianti FER e dell’eolico a maggior ragione, tale mancanza è inevitabile: i costi, nel loro complesso, sarebbero destinati a schiacciare i pochi benefici.
- Mancanza di norme cogenti per la definizione di piani energetici e regolamenti regionali. Di norme ne basterebbero pochissime, purchè chiare.
- Mancanza di una pianificazione territoriale nazionale ed in particolare di una definizione di aree idonee all’eolico. Sto facendo riferimento a quello che avrebbero dovuto fare le linee guida nazionali. Anche qui sarebbero bastate poche regole, privilegiando i criteri oggettivi ed in particolari dettando qualche valore numerico inderogabile da rispettare su tutto il territorio italiano, evitando accuratamente di parlare in termini di “suggerimenti”. Confidiamo che i menzionati decreti esecutivi attesi a breve provvedano ad ovviare, almeno in parte, a queste mancanze riguardo gli impianti eolici.
In questi obblighi assunti volontariamente (e modificabili nel senso indicato) dal Governo italiano risiede l’unico motivo razionale per l’installazione massiva di impianti eolico-industriali sulle nostre montagne. Oltre agli aspetti negativi evidenziati nel documento indirizzato alla Regione Emilia-Romagna, voglio qui sottolineare, di seguito, le insuperabili negatività di questa fonte sotto l’aspetto energetico e quello economico-finanziario. Nel complesso è sbalorditivo che una simile tecnologia venga anche solo presa in considerazione al di fuori di quello che dovrebbe essere il suo alveo naturale, e cioè di fornire energia da consumare in loco con impianti di ridotte dimensioni.
Aspetto energetico.
Gli ultimi dati ufficiali sulla produzione eolica sono stati resi pubblici da Terna nell’estate del 2010 e riguardano l’anno precedente.
La potenza installata a fine 2009 è stata 4.898 MW rispetto ai 3.537 MW di fine 2008 con una variazione di 1.361 MW pari ad un orripilante (per gli amanti dell’Italia) + 38,47%.
In parole povere, per fare comprendere ai profani di che cosa si tratta, e considerando che ormai la media della potenza installata su ogni singolo aerogeneratore (in crescita ogni anno assieme all’altezza degli aerogeneratori stessi) è prossima a 1,5 MW, significa deduttivamente quasi mille pale, alte mediamente 135 metri, in più sul territorio nazionale nel solo 2009.
La produzione totale degli impianti eolici in Italia nel 2009 è stata di 6.542 GWh, contro 4.861 del 2008, per un incremento del 34,58%, di quattro punti percentuali inferiore all’aumento della potenza, a ennesima dimostrazione che, nonostante le torri siano sempre più alte e l’impatto sul paesaggio, sull’ambiente e sulla salute in crescita esponenziale, ci si rivolge sempre più spesso verso siti marginali che sarebbero assolutamente trascurati in assenza di incentivi.
Nel 2009 l’Italia era quindi terza in Europa per potenza eolica installata ma solo settima per produzione realizzata, con la produttività peggiore in assoluto nei paesi dove c’è una significativa presenza di questi impianti.
Infatti le ore equivalenti di utilizzazione, ricavate dividendo l’energia prodotta per il potenziale massimo teorico installato, risultano 1.336 ore annue (pari ad un indice di efficienza ingegneristica del 15,25% essendo un anno = 8.760 ore). Anche correggendo, attraverso un procedimento deduttivo, l’efficienza per tenere conto del fatto che gli impianti presenti a fine 2009 ed installati lo stesso anno non hanno funzionato per dodici mesi, la produttività dell’eolico in Italia è stata di poco superiore alle 1.500 ore annue, pari ad un rendimento di circa il 17%. Mancano del tutto (o non sono stati resi pubblici) i dati delle perdite per inadeguatezza delle reti elettriche.
I valori percentuali sui consumi elettrici complessivi (cioè l’efficacia in senso ingegneristico, intesa come rapporto tra produzione da energia eolica e consumi nazionali) hanno raggiunto il 2%. L’efficacia sui consumi energetici totali è invece di pochi decimi di punto percentuale (circa lo 0,6%).
Questi dati dimostrano che le migliaia di torri eoliche presenti in Italia (in questo momento probabilmente già oltre le 5.000 unità, essendo i dati previsti per il 2010 oltre 5.800 MW di installato per una produzione di 8,3 TWh) non producono ancora l’energia elettrica equivalente a quella di una sola grande centrale termoelettrica. E, quello che è peggio, si tratta di energia non programmabile, per cui questi paragoni lasciano il tempo che trovano, non potendo, per la sua natura oscillante, l’energia da fonte eolica sostituire quella da fonti tradizionali. Sarebbe falso, cioè, affermare che il sacrificio imposto al territorio nazionale ha almeno permesso la chiusura di una centrale a combustibili fossili. Tali centrali devono comunque rimanere in funzione per produrre l’energia richiesta quando il vento non soffia.
Dati di produttività così sorprendentemente bassi derivano dal fatto che l’energia elettrica comincia ad essere prodotta dagli aerogeneratori solo quando il vento raggiunge una velocità di circa 15 chilometri all’ora, ma a quella velocità la produzione è minima. Essa aumenta in modo esponenziale in proporzione alla velocità del vento e raggiunge la massima produttività indicativamente attorno ai 40 Km/h, mantenendola fino ai 70 Km/h. A velocità superiori le pale vengono fermate e messe in bandiera per evitare incidenti. La velocità del vento ottimale, costantemente oscillante tra i 40 ed i 70 Km/h, è proprio quella che manca in Italia.
L’affermazione “l’Italia è un paese inadatto all’eolico industriale, perchè le sole zone con vento a stento sufficiente sono i crinali montani” dovrebbe avere come conseguenza logicamente necessaria “e quindi cerchiamo altre fonti di energia alternativa e/o non inquinante” e non “e quindi montiamo sempre più pale eoliche e sempre più grandi sui crinali”. Si parla ormai di macchine alte complessivamente anche 185 metri.
Evidentemente questo ragionamento distorto è possibile perchè la cultura prevalente ritiene di considerare il territorio e il paesaggio come beni spendibili. Anzi: neppure come beni ma come zona amorfa, del tutto disponibile a fini utilitaristici, anche solo per tentare esperimenti faustiani come questo.
La stessa GSE (cioè l’autorità governativa che regola la materia) è costretta ad ammettere esplicitamente: “Nonostante i progressi della tecnologia, le ore di utilizzazione non sono aumentate, molto probabilmente a causa delle caratteristiche dei siti disponibili per i nuovi impianti.” Questo conferma che ormai le zone migliori sono già state occupate da tempo ed ora si invadono le zone marginali che non sarebbero state prese in considerazione in assenza di incentivazioni così prodighe.
Ma la questione non si esaurisce qui: il problema fondamentale ed al momento irrisolvibile dal punto di vista della tecnologia dell’eolico è che il vento non soffia secondo la volontà degli uomini. Il vento fornisce per sua stessa natura un tipo di energia oscillante e questa energia non può essere accumulata, ma va immediatamente riversata nella rete elettrica.
In più, per motivi tecnici la rete non è in grado di sopportare sbalzi in aumento o in diminuzione dei parametri elettrici oltre ad un certo livello, pena un collasso sistemico.
Questo comporta tutta una serie di ulteriori problemi, tra i quali quello di determinare quale centrale fare produrre e quale tenere in stand-by. Paradossalmente dovranno essere costruite nuove centrali a combustibile fossile dedicate (quelle a turbo-gas, a switch rapido) nelle zone montane dove sono presenti gli impianti eolici, per fungere da tampone in caso di improvvisa assenza di vento. Per risolvere il problema dello spreco energetico qualcuno ha già pensato di costruire nuove dighe per utilizzare l’energia in eccesso tramite il pompaggio dell’acqua verso l’alto. E dunque ulteriori nuovi costi ed nuove offese al territorio. Proprio quello che si diceva di volere evitare. Ma non è tutto.
L’esperienza tedesca ha già più volte dimostrato che si verificano inconvenienti, quando il vento in Germania non rispetta le tabelle predisposte dai loro ingegneri. Nel 2006 si è verificato il black-out più serio, che ha interessato tutta l’Europa centrale.
Inoltre il funzionamento intermittente dei generatori eolici richiede un notevole sovradimensionamento della rete elettrica rispetto alla presenza di sole centrali tradizionali. La rete dovrà essere dimensionata per trasportare l’energia prodotta da questi impianti quando funzionano alla massima potenza, anche se questo accade solo di rado. Gli investimenti necessari per adattare la rete all’eolico non sono pagati dai produttori (che ne sono anzi i beneficiari) ma, di nuovo, dalla collettività dei consumatori di energia. E si tratta di un prezzo ingente. I nuovi tralicci alti 85 metri per supportare linee elettriche a 380.000 volt stanno per essere costruiti. Essi stessi rappresenteranno una fonte di guai facilmente prevedibili che si sommeranno a quelli delle pale.
Inoltre, secondo dati APER, nonostante le fortissime economie di scala registrate dai produttori internazionali di eolico, i costi sono in forte crescita. Chi conosce l’entità e la complessità dei lavori che dovrebbero essere fatti sulle montagne della nostra regione (spesso boscate e di difficile accesso viario), per trasformarle in aree industriali, capisce facilmente il perchè.
Ma ancora più gravi di quelle sui prezzi sono le distorsioni relative allo sfruttamento di siti a bassa produttività. Diventa vantaggiosa la scelta di localizzazioni che in condizioni normali sarebbero state trascurate: vengono devastate in modo irreversibile colline e montagne dove gli impianti sono destinati ad essere abbandonati con il venire meno degli incentivi. Allo stato attuale, risultano ampiamente redditizi anche i siti con appena 900 ore di vento all’anno. Ciò spiega il gran numero di richieste di autorizzazioni di allacciamento alla rete (oltre 90.000 MW nell’autunno scorso per il solo eolico, quando il potenziale massimo finora richiesto in Italia è 57.000 MW).
La cosa è tanto più grave se si pensa che l’eolico industriale richiede un consumo di superficie di gran lunga maggiore rispetto alle altre fonti rinnovabili. Questo in un paese come l’Italia, ad alta intensità abitativa, dove lo spazio è di per sè un bene prezioso.
A maggior ragione in Emilia Romagna, dove è evidente una volontà politica di costruire impianti FER in misura massiccia. Significativa un’intervista al Carlino dell’Assessore regionale alle attività produttive: “Entro il 2020 in Emilia Romagna la produzione di energia pulita dovrà arrivare a 6.000 MW (sic) mentre attualmente siamo a quota 860.” Si tratta ovviamente di potenza lorda e non di energia e la quota di “energia pulita” sembra comprendere tutto quello che non deriva da impianti termoelettrici.
La potenza lorda di questi ultimi, a fine 2009, era di 6.683 MW e l’energia richiesta in regione nel 2009 è stata di 27.674 GWh di cui solo 21.962 prodotta da impianti in Emilia Romagna. Il deficit è stato perciò di 5.712 GWh (poco più del 20%). Prescindendo dal fatto che l’autosufficienza regionale della produzione della energia elettrica non è sancita come obbligatoria da nessuno, essendo passati i tempi dell’autarchia e risultando l’acquisto da altre regioni, o addirittura dall’estero, di quote di energia elettrica una scelta perfettamente razionale per motivi economici ed ambientali, da questi dati si evince la produttività drammaticamente scarsa degli impianti emiliano-romagnoli.
Anzichè risolvere il problema del perchè di questa inefficienza di sistema, la soluzione della politica regionale, se le intenzioni dell’Assessore saranno confermate, parrebbe essere quella di sostituire (o più probabilmente affiancare) in toto e in pochissimi anni gli impianti termoelettrici con altrettanti impianti ad “energia pulita”, di produttività ancora più scarsa (eolico e FV si aggirano entrambe attorno al 15 – 17%). Esattamente il contrario di quello di cui ci sarebbe bisogno.
Gli “industriali” eolici ed i loro sostenitori ricorrono a numerosi “trucchi” per magnificare la produttività dei loro impianti. Il primo e più importante è l’enfasi posta sulla potenza installata (che ha un mero significato statistico trattandosi di energia intermittente) anzichè sull’energia prodotta.
Poi c’è la loro consuetudine di ragionare in termini di “consumi per le famiglie” soddisfatti da questi impianti, che fanno ingannevolmente pensare al consumo in loco della produzione. La famiglia dà anche l’idea di nuclei numerosi, ma in realtà essa corrisponde nel nostro caso in media a poco più di due persone ciascuna. Il “trucco” che impressiona di più è invece quello di considerare, pur senza dichiararlo, solo i consumi domestici (circa un sesto del totale in Emilia Romagna), e non quelli pro capite, come se l’energia elettrica prodotta al di fuori delle abitazioni non servisse alle famiglie medesime o fosse ottenuta in modo diverso da quella utilizzata per usi domestici. Una singola pala di un MW di potenza (alta più della torre degli Asinelli), in Emilia Romagna sarebbe in grado di soddisfare durante la sua vita utile, pur nella inverosimile ipotesi che la produzione potesse essere programmabile e senza tenere conto dei costi necessari, il consumo pro capite annuo al massimo di 200 persone…
Aspetto economico.
Allora perchè tanto accanimento?
La risposta in due parole: certificati verdi.
Non voglio in questa sede addentrarmi nell’analisi di questa particolare forma di incentivo pubblico a carico non dell’Erario ma del cittadino consumatore che finanzia a sua insaputa la speculazione attraverso costi aggiuntivi della bolletta elettrica.
In parole povere: troppi incentivi e nessuna regola.
I colossali profitti così ottenuti vengono poi parzialmente reinvestiti nel “convincimento” di politici e mass-media, rendendo possibile, presentando non solo come accettabile ma addirittura desiderabile la devastazione territoriale, il proseguimento delle operazioni di investimento in eolico, in teoria, all’infinito.
Siamo quindi in presenza di quello che gli economisti americani definirebbero un tipico “schema Ponzi” (da noi più volgarmente noto come “catena di Sant’Antonio”) perfettamente legale (almeno formalmente) ma destinato a crollare in un qualsiasi momento sotto il suo stesso peso.
Questo momento sembrava essere arrivato la scorsa primavera, dopo la vicenda dell’art.45 della manovra finanziaria di primavera che prevedeva la fine della garanzia statale di acquisto dei certificati verdi in eccesso, poi il sistema è stato puntellato. Ma tutti sanno che è solo questione di tempo perchè accada l’inevitabile, come è già successo in Spagna per il fotovoltaico. Da questa consapevolezza deriva la corsa all’accaparramento dei permessi di allacciamento alla rete elettrica di impianti eolici e la frenesia verso la “conquista”, senza limiti ed esitazioni, di tutti i crinali italiani: gli ultimi arrivati, che non avranno ancora ammortizzato il capitale speso inizialmente per costruire gli impianti, e le banche che li hanno finanziati, affogheranno al momento della rottura della catena. Cioè dello scoppio inevitabile della bolla speculativa.
In questa ormai ultra decennale vicenda di furbesche incentivazioni, non ravvisiamo assolutamente niente di congruo, ma solo una colossale speculazione finanziaria, culminata alla fine del 2007, quando il Governo di allora ha deciso di aumentare la durata dei certificati verdi a 15 anni, prolungabili ad altri 15 nel caso di sostituzioni di parti dei macchinari, e di aumentare l’incremento annuo della quota di energia rinnovabile richiesta ai produttori di energia allo 0,75% annuo fino al raggiungimento della quota del 7,55% sull’energia elettrica prodotta entro il 2013, ma soprattutto di fissare un valore amministrato di riferimento del prezzo dell’energia eolica (a 180 euro al MWh), stabilendo nel contempo la garanzia statale di acquisto dei certificati verdi prodotti in eccesso. A questo punto il vulnus è diventato insanabile.
La congerie di queste nuove norme, combinandosi alla gragnuola di provvedimenti legislativi dei precedenti Governi, sempre ad esclusivo vantaggio degli industriali eolici al punto da configurare veri e propri privilegi (e speculari servitù) di natura neo-medievale, ha portato a quello che l’attuale Ministro dell’Economia ha definito “uno degli affari di corruzione più grandi d’Italia” e “un business ideato da organizzazioni corrotte che vogliono speculare”.
Questo è esattamente lo stesso, identico convincimento da noi maturato in questi anni.
E’ sbalorditivo come, contemporaneamente, si riescano a danneggiare, senza alcuna logica dichiarata che non sia quella della sottomissione a un diktat imposto da multinazionali straniere, i cittadini italiani nella loro duplice veste di consumatori e contribuenti, tutta l’attività economica nazionale a vantaggio della concorrenza estera ed il territorio patrio, il suo ambiente ed il suo paesaggio, cioè la stessa identità culturale della Nazione, il tutto con un ingente danno diretto, e soprattutto indiretto, al pubblico erario.
Lo scorso anno abbiamo appreso infatti da fonte AEEG (l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas) che il regime di incentivazione delle “rinnovabili” costerà nel 2020, a regime ed ai livelli correnti di incentivazione, 9 miliardi di euro all’anno, equivalente ad una manovra finanziaria correttiva di media entità. Ma ripetuta ogni anno. A tacere dei costi per adeguare la rete elettrica alla massiccia presenza di questa forma di energia non programmabile e del costo di funzionamento delle “centrali tampone” di supporto.
Il sussidio del solo eolico, l’anno scorso, dovrebbe essersi aggirato attorno agli 800 milioni di euro.
Ma queste cifre sull'”energia pulita” appaiono già sottostimate (come noi temevamo), perchè la stessa AEEG ha parlato, nel febbraio di quest’anno, di un costo previsto per il solo 2011 di 5,7 miliardi di euro, in crescita esplosiva stanti gli incentivi attuali.
Tutta questa operazione, inizialmente partita con la meritoria volontà di fare diminuire il costo sproporzionato dell’energia elettrica, ridurre la dipendenza energetica da inaffidabili fornitori internazionali e contribuire alla diminuzione dell’inquinamento atmosferico, si è trasformata in una occasione di business per il Governo tedesco ed i suoi satelliti, che esportano queste tecnologie dopo avere saturato i loro mercati interni, accentuando la loro politica economica export led, che sta causando tanti problemi all’equilibrio economico-finanziario mondiale.
L’Unione Europea è la sola ad avere applicato gli esiti del protocollo di Kyoto, accettando di subire un danno collettivo per i propri cittadini e le proprie aziende; all’interno dell’Unione, poi, alcuni paesi (o meglio: alcune loro multinazionali) guadagnano da questa operazione e altri perdono. Tra questi l’Italia. Esclusi pochi furbi. Non trattandosi di prodotti di industrie italiane, i posti di lavoro creati vengono artatamente sovradimensionati per ingannare l’opinione pubblica nazionale. I ciclopici opifici eolici sono, ovviamente, privi di operai: non c’è neppure la (blanda) giustificazione, per un tale scempio, di una politica economica keynesiana a sostegno dell’occupazione.
Ma quello che più ci lascia attoniti, non solo come cittadini ma anche come risparmiatori, è il ruolo attivo di qualche banca “d’affari” (o private equity, o land banker, o venture capitalist o …) nel rendere possibili queste operazioni speculative. L’abituale range del rapporto debt to equity per operazioni di finanziamento a impianti di questo tipo, oscillante nella norma tra il 70%-30% fino al massimo di un 80%-20% nell’assenza di seri rischi imprenditoriali, in molti casi a noi noti viene apparentemente elevato fino al 99%-1% ed oltre, accertato che nel settore eolico operano prevalentemente improbabili società a responsabilità limitata, spesso provenienti da tutt’altro settore merceologico, in genere con un capitale versato pari al minimo, richiesto dalla legge, di 10.000 euro. Siccome il costo di un impianto eolico industriale è nell’ordine di grandezza delle decine di milioni di euro, si realizza un effetto leva sull’investimento inspiegabile e ingiustificabile, se non nella certezza, evidentemente diffusa tra gli operatori finanziari, di ottenere dei profitti sicuri, garantiti dallo Stato, pari ad un multiplo del costo dell’impianto. Il settore eolico-industriale, in questo modo, dà la facile illusione di conseguire un “Return on Equity” di dimensioni impensabili per attività economiche lecite. Ma qui senza (apparenti) rischi, nella (errata) convinzione che ormai il sistema sia ormai troppo grande per essere lasciato fallire.
Le banche considerano operazioni finanziarie di questo tipo (non c’è infatti niente di “industriale”, essendo la tecnologia prodotta all’estero) come la gallina delle uova d’oro ed assolutamente prive di rischio d’impresa, stanti simili garanzie statali e la benevolenza dei politici che “curano” le procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA), e quindi da finanziare ad occhi chiusi per qualsiasi cifra.
L’avere a disposizione una lettera di autorizzazione a costruire impianti eolici sui terreni di un Comune montano firmata da un Sindaco, autorizzazione che è oggetto di un commercio indecente da parte di “sviluppatori”, equivale perciò ad avere rendite garantite (dallo Stato) in contanti dell’ordine di grandezza di alcuni milioni di uro all’anno per impianto, tali cioè da ammortizzare l’investimento iniziale in pochi anni. E perciò tale autorizzazione viene valutata, a seconda della ventosità del sito, nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro per MW installabile… Con queste cifre in gioco tutto diventa possibile. E arrivano, attirate come le api dal miele, le organizzazioni specializzate nel controllo del territorio e nell’opera di convincimento dei riottosi, come più volte accertato dalle Procure della Repubblica e denunciato dallo stesso Procuratore nazionale antimafia.
In questo diluvio di denaro collettivo, gli “sviluppatori” dell’eolico possono permettersi anche di offrire ai Sindaci dei Comuni interessati enormi royalties (sebbene ora espressamente vietate anche dalle linee guida nazionali) legate al fatturato previsto. Molti pubblici amministratori, dobbiamo purtroppo constatare, rinunciano così al loro ruolo di guardiani del loro territorio, come prevede la legge ed il loro dovere istituzionale, in cambio di flussi di cassa che loro credono essere eterni.
Questi comportamenti hanno legittimato, fino ai più bassi livelli della pubblica amministrazione, una politica economica del tipo “beggar my neighbour” (anche in senso letterale, non solo metaforico, vista le dimensioni e l’intrusività degli enormi aerogeneratori) un tempo riservata ai soli Stati sovrani, ma ora possibile senza regole su tutto il territorio nazionale, tanto da originare un bellum omnium contra omnes che coinvolge, ovunque compaiono le pale in Italia, Province, Comuni e cittadini.
Quanto più gli impianti eolici risalgono la penisola, andando ad interessare regioni marginali, tanto più essi si scontrano con popolazioni sempre meno disposte a sopportare in silenzio queste prepotenze baronali. Tali popolazioni ravvisano e denunciano comportamenti in cui (citando di nuovo il Ministro dell’Economia) “molti governi locali si sono clonati e derivati in galassie societarie parallele. Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario… Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l’affare degli affari è quello dell’eolico.”
Alberto Cuppini
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