La Sen e l’arte della manutenzione dell’idroelettrico

Presentata la bozza della nuova Strategia energetica nazionale (Sen). Un valore obiettivo abnorme proposto per le rinnovabili elettriche al 2030 (obiettivo che per l’Unione Europea non è neppure vincolante) ci fa temere un’ulteriore ondata di costi in bolletta e un diluvio di pale su tutti i crinali dell’Appennino. A meno che se non venga data la priorità negli investimenti, con un programma di manutenzione e ripotenziamento, al settore idroelettrico a bacino già esistente.

Anima mia, non aspirare alla decarbonizzazione integrale, ma esaurisci il campo del possibile. (Pitiche 2017)

E dunque mercoledì scorso è stata presentata l’attesa bozza della nuova Strategia energetica nazionale (Sen), che indica il percorso per ottemperare agli obiettivi europei al 2030. Con essa, tutti i nostri timori si sono concretizzati: il governo italiano intende persino andare oltre gli obblighi – già soffocanti – imposti dall’Unione Europea.
L’occasione della presentazione è stata l’audizione congiunta del ministro dello Sviluppo Calenda e di quello dell’Ambiente Galletti davanti alle commissioni riunite Ambiente e Attività Produttive della Camera.
La bozza, nonostante le apparenze del formato compatto e l’insistito ricorso a numeri ed a grafici, ci appare un ennesimo testo New Age, con il solito eccesso di sentenziosità Zen, chiaramente derivato dalla insopportabile retorica ecologista della Cop21 di Parigi, che tanta parte ha avuto, a causa della reazione di una opinione pubblica americana ormai esasperata dal politically correct, nella recente elezione di Trump. Non abbiamo dubbi che il testo definitivo della Sen, che vedrà la luce dopo una “consultazione pubblica” lunga 30 giorni (ma che immaginiamo nascosto in qualche cassetto ministeriale), soffrirà ancor di più di questi difetti, il principale dei quali appare la mancanza del quesito ineludibile: chi paga?
Le lobby, negli ultimi mesi già attivissime, si scateneranno nelle prossime quattro settimane per ottenere, a favore dei propri settori, quante più libbre possibili di carne dal corpo già martoriato dei consumatori italiani, ed i sommi ideologi della “corrente di pensiero elettrica” (la definizione ironica è dello stesso ministro Calenda) non ci risparmieranno nulla del loro armamentario retorico, per essere ben sicuri di affondare il sistema industriale ed arrecare quanti più sfregi possibili al territorio italiano.
Prima di iniziare è però opportuno chiarire una cosa, che dovrebbe contribuire a risollevare un po’ gli animi: la Sen non è esplicitamente prevista, almeno finora, in alcun atto con forza di legge. Questo significa non solo che la nuova Sen non sarà un nuovo Vangelo, ma che servirà tutt’al più alla politica e all’opinione pubblica per capire quali sono i rapporti di forza tra i vari “stakeholder” che ci stanno sbranando. Ciò precisato, cominciamo con le cattive notizie.

Concentreremo la nostra attenzione su un numero: è quel 48% – 50% di “Penetrazioni Rinnovabili” per il settore elettrico che appare in rosso in alto a destra a pagina 20 della bozza (vedi qui sotto).

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La nuova Sen decide dunque di privilegiare, nonostante le recenti dichiarazioni in senso opposto di Calenda, la produzione da rinnovabili (il 27% dei consumi complessivi, che peraltro è un obiettivo europeo NON vincolante per i singoli Stati dell’Unione) rispetto all’efficienza energetica. Peggio ancora, come si può ben notare dal grafico qui sopra, favorisce le FER elettriche piuttosto che il ben più promettente settore “riscaldamento – raffrescamento”.
Si conferma così in pieno, stanti queste priorità, la politica disastrosa fin qui praticata e, se tanto mi dà tanto, temiamo che nel testo definitivo saranno privilegiate, come nel recente passato, le fonti intermittenti (eolico e fotovoltaico).
Faccio presente come l’anno scorso si sia concretizzato in 14,4 miliardi di euro il totale degli incentivi per sussidiare la produzione di appena il 20% dell’energia elettrica consumata in Italia, come risulta (ma solo implicitamente!) dal recente rapporto attività 2016 del GSE.
La produzione da rinnovabili elettriche nel 2016 è stata infatti di 105 TWh (corrispondente a circa un terzo dei consumi), ma la produzione incentivata è stata di “solo” 65,5 TWh (grande idroelettrico e geotermia “storica”, ad esempio, non sono incentivate…). 65,5 TWh su un consumo interno lordo del 2016 di 322 TWh rappresentano, appunto, il 20%. La cosa grave è che il GSE si guarda bene da farlo rilevare.
Ora si tratterebbe, secondo la bozza, di incrementare la produzione di FER, ovviamente per il tramite di nuovi incentivi, di circa un altro 15% sui consumi interni lordi. Questa nuova spesa per incentivi si dovrà sommare ai 12 miliardi annui previsti per il 2017, che diminuirà molto lentamente fino al 2030 e che dovrà poi essere, a sua volta, rifinanziata quando pale e pannelli smetteranno di produrre. Il rapporto incrementale sarà dunque pari a 3/4 (15% : 20%) dell’attuale produzione incentivata. Prendendo per buono il valore stimato per il 2017 (quando l’effetto di trascinamento sui costi dei certificati verdi si sarà esaurito) di 12 miliardi, con una facile proporzione si scopre che a questi 12 miliardi se ne dovranno aggiungere (a parità di sistemi incentivanti) altri 9 (20 : 12 = 15 : x con x = 9). Naturalmente il governo giura e spergiura che no, questa ulteriore emorragia sarà molto più contenuta, ma anche chi qualche anno fa avesse detto che, cedendo (come hanno fatto tutti i governi del nuovo secolo) alle pretese dei lobbysti, per produrre appena 105 Twh da rinnovabili si sarebbe finito per spendere 14,4 miliardi in un anno per i soli incentivi sarebbe stato fatto passare per matto.
Non faremo mai sufficientemente notare che la spesa sostenuta nel 2016, sommata ai costi indotti dall’uso di rinnovabili non programmabili (dispacciamento, nuove reti eccetera), nel 2016 ha superato molto abbondantemente l’uno per cento (cioè16 miliardi e spiccioli…) del PIL. Per avere un paragone dell’entità dell’insensato sforzo, è utile ricordare che l’oggetto del contendere della furibonda disputa per la correzione dei conti pubblici nazionali tra Unione Europea e governo italiano che ha occupato negli ultimi mesi le prime pagine dei quotidiani italiani riguardava la necessità della riduzione del deficit pubblico di 3,4 miliardi, pari allo 0,2 del PIL…
Se realizzato (come non credo), tale obiettivo per le FER elettriche al 2030 modificherà molto la percezione visiva (e non solo) dell’Italia.
Si tratta ora di determinare concretamente, dopo la “consultazione pubblica”, in che cosa consisterà questo “molto”. Lo si farà nelle prossime settimane, che saranno particolarmente intense. Soprattutto perchè i soldi a disposizione sono pochi e gli interessi da compiacere sono molti.
Nei prossimi anni, invece, si tratterà di limitare i danni peggiori sul territorio, finchè un simile sistema elettrico non crollerà sotto il suo stesso peso. Non solo finanziario, come da noi illustrato in passato, trattando dell’incombente baratro energetico che ci attende perseverando in queste politiche “dissennate” (per usare la scelta lessicale del ministro Calenda).
Calenda, appunto: Calenda ci ha delusi, specie dopo quanto di buono aveva recentemente affermato, ma, evidentemente,ci sono interessi troppo forti e troppo diffusi da soddisfare, specie in periodo pre-elettorale.
Ci rasserenano, almeno parzialmente, alcune sue dichiarazioni rilasciate durante l’audizione parlamentare e riportate da Quotidiano Energia nell’articolo “Nuova Sen: Ecco i temi cardine”:
“Calenda ha anche parlato della necessità di promuovere la pulizia degli invasi” (vedi pag. 21 della bozza: “… rilanciare gli investimenti, in particolare lo svuotamento e pulizia degli invasi”, su cui ritorneremo). Il ministro dello Sviluppo, circa la necessità della adozione in tempi rapidi del “capacity market”, ha anche affermato: “Il tutto perchè dopo le dismissioni di impianti “pregiati” degli ultimi anni solo 47-53 GW installati (vedi il grafico, riportato qui sotto, di pagina 27) contribuiscono all’adeguatezza del sistema. Per cui “siamo a tappo” e occorre varare al più presto il capacity market, ha detto Calanda. Il gas prenderebbe quindi ancor più spazio”.

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Questo grafico, sia detto per inciso, presenta un quadro della precaria sostenibilità del sistema elettrico nazionale (che sarà peggiorata dall’introduzione di altro potenziale elettrico non programmabile) persino più grave di quella da noi denunciata durante la recente crisi indotta dalla chiusura della centrali nucleari francesi.
E’ significativo che la presentazione della nuova Sen, che rischia di piantare gli ultimi chiodi nella bara dell’economia italiana (che in questi giorni si conferma la meno dinamica dell’intera Unione nella crescita del PIL), sia stata pressochè ignorata dai principali media. Neppure il “Sole” ha enfatizzato l’evento, fatto salvo un articolo di Davide Tabarelli pubblicato il giorno seguente: “La debolezza di un sistema dipendente dall’import“, che condividiamo in larga parte e di cui riportiamo, qui di seguito, i passaggi più significativi:
“Le rinnovabili sono triplicate negli ultimi 20 anni… Lo sforzo economico per le nuove rinnovabili ci pone ai primi posti al mondo, con la differenza che noi abbiamo un Pil in calo negli ultimi 10 anni”.
Il Professor Tabarelli (che fortunatamente ha cambiato idea da quando considerava un successo l’improvvisa installazione di oltre 10 Gw di fotovoltaico tra il 2010 e il 2011) dovrebbe però anche dimostrare, calcolandone l’indice grazie alle potenti risorse di analisi economica a disposizione di Nomisma, la forte correlazione tra i due accadimenti, ed osare affermare pubblicamente che dal primo (“lo sforzo economico per le nuove rinnovabili”) deriva, in gran parte, il secondo (“Pil in calo”).
Continua Tabarelli nel suo articolo: “Durante lo scorso inverno, i problemi al nucleare francese hanno evidenziato criticità, che potrebbero ripetersi e aggravare i problemi generati dall’intermittenza delle nuove rinnovabili. Anche di ciò si parla poco nella Sen”. E conclude: “Bello parlare di auto elettrica, di pompe di calore e di chiusura di centrali a carbone, senza menzionarne i costi che, invece, qualcuno pagherà”.
Anche in ambito energetico ed ecologico, a quanto pare, la complessità del mondo globalizzato – e la conseguente crescente insicurezza percepita dalle opinioni pubbliche dell’Occidente – fa aumentare i comportamenti irrazionali, che in Italia si vanno a sommare agli storici ritardi culturali. La politica fa da catalizzatore a questi innumerevoli e ultra-complessi problemi, ma tende a proporre, proprio perchè di facile presa sul grande pubblico, soluzioni elementari che, alla lunga, li aggravano. Un passaggio dell’articolo di Angelo Panebianco sul Corriere del 17 marzo scorso dal titolo “Chi odia la società aperta” sintetizza efficacemente questo concetto, che ben si attaglia anche alla logica sottesa alla politica a favore delle FER elettriche:
“La lunga crisi economica ha rivitalizzato le tradizioni anticapitaliste del Paese. Un tempo c’erano i tanti fautori della rivoluzione, oggi ci sono i loro eredi, nonché i teorici della decrescita felice e altre bufale pseudo-ecologiste. Tutti insieme solleticano gli istinti peggiori del pubblico contro «l’Europa dei banchieri», il «grande capitale», e gli altri mostri impegnati a vampirizzare il popolo. Un Paese in declino demografico ed economico, e che vi si è rassegnato, è forse il più idoneo per adottare ricette di «politica economica» collaudate altrove in altri anni, ricette che hanno già fatto disastri in Argentina, Venezuela, Perù, e altri luoghi”.
Ancor più duro, sulla stessa questione, appare Carlo Stagnaro nell’articolo “L’era della paleoenergia“, apparso sul Foglio del 18 aprile: “C’è un solo precedente di società con bassi consumi pro capite, dipendente al 100 per cento dalle fonti rinnovabili e dagli elementi naturali, largamente autosufficiente e fondata sull’autoconsumo. E’ il paleolitico”.
L’irrazionalità ideologica imperante, dopo anni ed anni di martellamento mediatico, in materia energetica ed in particolare il dualismo manicheo tra le fonti rinnovabili buone e quelle fossili cattive, è ormai palese a tutti i livelli. Ad esempio, Carlo Valentini, su Italia Oggi dell’ 11 aprile, nell’articolo “Abbattuti 300 mila ulivi a favore del fotovoltaico”, faceva notare che
“… in Puglia… un gasdotto… è da qualche giorno bloccato… perchè c’è chi si oppone ai lavori per estirpare 211 ulivi, che poi saranno rimessi al loro posto, sui 60 milioni di ulivi censiti nella regione. Dove sono stati abbattuti 300 mila ulivi per fare posto alle maxi-aree destinate al fotovoltaico. Questi ultimi ulivi non hanno trovato difensori e sono stati abbattuti nel disinteresse generale”.
E pensare che avevamo appena appreso da Libero del 10 maggio che “Gli ecologisti ci riducono in bolletta” con gli incentivi alle rinnovabili: 180 euro al MWh in Italia contro una media europea di 110! E questo nel 2015, prima del balzo della spesa annua per incentivi a 14,4 miliardi nel 2016 (vedi anche su Qualenergia l’articolo “Incentivi alle rinnovabili: costi e prospettive di mercato in Europa“).
Intanto abbiamo pure una ennesima conferma dell’inutilità di questi sforzi europei del tutto mal indirizzati. Leggiamo, ad esempio, su Qualenergia del 4 maggio nell’articolo “CO2 in leggero calo in UE, ma il mondo è già oltre quota 410 ppm” che in atmosfera “la concentrazione di anidride carbonica continua ad aumentare: siamo al record di 412 parti per milione”. Nonostante tutte le pale ed i pannelli montati in Europa – e tutti i soldi spesi dagli europei per incentivarli – con queste politiche esemplari da primi della classe le cose vanno di male in peggio. Il motivo viene candidamente esposto nello stesso articolo di Qualenergia: “Rammentiamo sempre che l’Europa riesce a vantare al momento buone prestazioni in termini di emissioni anche perché in gran parte le “delocalizza” (in grassetto nel testo. Ndr). Ad esempio il rapporto tra Pil e fabbisogno energetico, nel nostro Paese è sceso di quasi 9 punti percentuali dal 2010 al 2014. Se l’efficienza energetica ha i suoi meriti in questi risultati, ha un notevole ruolo anche il cambiamento strutturale della nostra economia, che negli ultimi decenni ha visto parte della produzione industriale spostarsi all’estero, spesso nei Paesi emergenti”. Dove – occorrerebbe aggiungere anche se è politicamente scorretto – il rispetto per l’ambiente è minore, gli impianti industriali sono più inquinanti e le priorità politiche sono ben altre. Questo fenomeno, ormai ampiamente noto a tutti, si chiama “carbon leakage”, ed è in grado, da solo ed in assenza di analoghe politiche autolesionistiche nei “Paesi emergenti”(che l’ideologia terzomondista attualmente in vigore a Bruxelles vieta persino di prendere in considerazione), di vanificare tutti gli sforzi europei. Le politiche dell’Unione, e quelle italiane in particolare, si riducono così ad una immane e controproducente fatica di Sisifo. Siamo lieti che anche “il portale dell’energia sostenibile” ne abbia assunto consapevolezza. Ora però ne dovrebbe trarre l’inevitabile conseguenza logica…
Dimostrato che perseverare con le FER elettriche oltre certi limiti già ampiamenti superati è da forsennati, cerchiamo almeno di proporre qualche soluzione per limitare i danni della nuova Sen.
Siccome, come dice Calenda, “l’orizzonte tecnologico non è chiaro per nulla”, si tratterebbe innanzi tutto di ritardare per quanto possibile ad una data prossima al 2030 l’installazione di nuovi impianti FER in attesa di una auspicabile evoluzione tecnologica, onde evitare che errori dovuti ad una fretta ingiustificata ipotecassero il futuro del Paese più di quanto non sia già stato fatto.
Occorrerebbe poi privilegiare
a) le fonti programmabili rispetto a quelle intermittenti,
b) tra le intermittenti il fotovoltaico all’eolico e
c) i piccoli impianti fotovoltaici diffusi rispetto alle allucinanti distese di pannelli che si sono rivelati sia scarsamente efficienti che costosissimi in termini di incentivi.
Ma in assoluto, tra le FER elettriche, il settore su cui sarebbe più conveniente investire da subito è quello delle grandi dighe idroelettriche, cominciando proprio con “lo svuotamento e pulizia degli invasi”, come evocato a pag. 21 della stessa Sen. Non volendo ripetermi sui motivi di questa preferenza, rimando all’ articolo “Umile, preziosa e sprecata” pubblicato un paio di anni fa dall’Astrolabio.
Sono convinto che la priorità negli investimenti concessa ad un programma di manutenzione e ripotenziamento del settore idroelettrico a bacino già esistente basterebbe – essa sola – per soddisfare almeno la metà di quel 15% di ulteriore produzione da FER elettriche sui consumi prevista dalla nuova Sen per il 2030.
Questa priorità dovrebbe ora essere in cima ai programmi politici per la prossima legislatura a maggior ragione perchè, in coincidenza della crisi del nucleare francese (e l’eccesso di sfruttamento dell’acqua dei bacini alpini per rimpiazzare l’elettricità che non arrivava più da Oltralpe), il coefficiente di invaso dell’ “aggregato Italia” risulta essere stato sotto ai minimi storici per almeno i primi due mesi dell’anno, come si evince dal grafico in basso a pag. 22 del rapporto mensile Terna sul sistema elettrico del 28 febbraio scorso.
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Nella stessa pagina 22 si potrà notare come quel coefficiente sia stato particolarmente basso proprio nelle dighe dell’arco alpino.
Questa emergenza epocale del sistema delle dighe alpine, tra l’altro, ha comportato persino imprevedibili emergenze ecologiche, come ci ha informato – lasciandoci sbigottiti – Nicola Lugaresi nell’articolo “Una fretta pericolosa” sul Corriere del Trentino del 4 marzo scorso: addirittura “la riduzione del deflusso minimo vitale, deliberata dalla Provincia (di Trento. Ndr)”. Come spiega lo stesso Lugaresi nell’articolo: “se si deve certamente tenere conto delle esigenze produttive ed energetiche, l’obiettivo principale del deflusso minimo vitale è però quello di evitare che lo sfruttamento incida in modo irreparabile, o comunque troppo invasivo, sui valori ambientali dei corsi d’acqua”.
Il problema, causato dalla sciatteria nella programmazione e nella manutenzione degli impianti associata ad una crisi imprevista all’estero, non si è certo risolto ancora, se non più tardi della settimana scorsa gli italiani increduli hanno potuto leggere sulla Stampa un articolo dal titolo “La guerra dell’acqua: il Trentino chiude i rubinetti al Veneto“.

Massicci investimenti per incrementare la portata delle dighe sono perciò improcrastinabili, ma sappiamo che non se ne farà niente perchè, a differenza dei sistemi incentivanti le FER elettriche attualmente in vigore, ci sarebbero poche prebende da distribuire a pioggia.
La conclusione è persino più desolante. Come ha dichiarato alla Stampa pochi giorni fa Aldo Pizzuto, direttore del dipartimento Fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare dell’ENEA: “Senza una fonte nucleare non è fattibile raggiungere i risultati cercati in tema di sostenibilità, dato che le rinnovabili, da sole, non bastano”. Questo significa che i nostri ecologisti misticheggianti, con la loro enfasi sui cambiamenti climatici causati dai demoniaci gas clima alteranti, dopo avere deturpato i crinali appenninici italiani con le loro insulse pale eoliche, stanno aprendo la strada, non appena gli italiani sbatteranno il naso contro l’insostenibilità del sistema elettrico basato su fonti non programmabili, al secondo Avvento del nucleare, che, come noto, non induce cambiamenti climatici. Ma attenzione: non il nucleare a fusione (cioè senza scorie radioattive) di cui si favoleggia all’ENEA (che è ancora nei libri di fantascienza, come i viaggi interstellari e come i sistemi di accumulo per grandi quantità di elettricità), ma il nucleare a fissione di terza generazione, cioè quello della centrale-araba fenice di Flamanville, la cui tecnologia il governo italiano dovrà pagare a peso d’oro, sopportando un prezzo dell’energia elettrica del tutto fuori mercato per 25 anni (come ha recentemente scelto di fare il governo britannico), da pagare ai francesi e… ai cinesi!

Alberto Cuppini

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